“Io so che il mio Redentore vive”. Comprendiamo che cosa voglia dire la parola “vive”, quando è Giobbe a pronunciarla? È importante che noi lo comprendiamo, perché è come lui che la dobbiamo pronunciare quando parliamo di Gesù come colui che “vive”. Sulla bocca di Giobbe, quella parola “vive” non vuole dire che tutto andrà un po’ meglio o molto meglio di prima; né vuole dire che le sofferenze e le preoccupazioni che lo rendono triste, angosciato, amaro, pian piano avranno termine, che tutto finirà con l’arrangiarsi. Ogni cosa, nella vita di Giobbe, è troppo disperata per poter essere arrangiata e resa in qualche maniera sopportabile. Non c’è nessuno scampo, nessuna via d’uscita da cui la sua esistenza può passare. Se deve esserci per lui ancora una vita da vivere, deve essere tutta un’altra cosa. Dev’essere la fine definitiva di tutto quello che lo fa soffrire, la distruzione di tutto il suo presente in modo tale che non ne resti niente: niente delle piaghe che lo straziano, niente di quel peccato che egli avrebbe commesso e che i suoi amici stanno lì a rinfacciargli; niente della sua solitudine davanti a loro e davanti a sua moglie; niente degli insulti e delle accuse degli altri esseri umani; niente dell’inimicizia di Dio!
È proprio così: se la parola “vita” deve per Giobbe riacquistare un senso, è necessario che non resti più nulla di tutto quello che per lui è sofferenza. E questo ce lo indica egli stesso, quando, come troviamo in non poche versioni della Bibbia, chiama “colui che vive”, non “il mio Redentore”, come nella nostra Nuova Riveduta, ma “il mio Vendicatore”. Il “Vendicatore” della sventura, della sofferenza, del peccato. E Dio deve anche essere (ed è qualche cosa che dà le vertigini) il Vendicatore di Giobbe nella lotta che sta conducendo contro il terribile mistero… di chi?… di Dio stesso, che “lo ha avvolto nella sua rete”. Sì, Dio è per Giobbe colui che fa vendetta di tutte queste realtà, persino di se stesso, perché è “colui che vive”.
La Risurrezione che a Pasqua abbiamo annunciato, che ci annunciamo anche nel culto di oggi e in ogni altra domenica dell’anno, vuol dire proprio questo: la vita che esplode nel cuore del sepolcro e il Risorto che lotta e vince contro tutto ciò che ci infligge sofferenza, ci terrorizza, suscita paura: le malattie dei nostri corpi e delle nostre anime, la nostra poca fede, i nostri dubbi, e la nostra ignoranza ed il nostro peccato… Tutto questo è vendicato, riscattato, annientato dal Signore risorto.
Sì, Cristo Risorto è colui che vince la morte, il male, l’assurdità di questo nostro vivere che spesso non è vita ma un peso che ci accascia, proprio perché prima è stato il Crocifisso. La Risurrezione – non lo dobbiamo mai dimenticare – è sempre anche l’annuncio di una morte, perché è “risurrezione dai morti”; ma proprio per questo è anche l’annientamento della morte, la sconfitta di tutto ciò che ci uccide, lentamente oppure brutalmente, e la sconfitta di tutto quello che ci separa da Dio o dagli altri esseri umani, e che, nella solitudine disperata che tanto spesso noi sperimentiamo, ci fa disperare di noi stessi. Questo è quello che Giobbe vuole dire quando ci dice che “il suo Redentore”, che “il suo Vendicatore”, “vive”. Questa è “la vita” che ci è annunciata a Pasqua.
Il pastore